Giacone, l'etica del fare

I caruggi di Genova, le vecchie acciaierie di Terni, i capannoni dismessi a Portonaccio. Parte da qui Valerio Giacone, promessa in farsi che nel quartiere della ex periferia romana è nato e cresciuto e nel cuore della capitale lavora, in uno stabile a due passi dalla galleria di riferimento, Spazio 120. Macerie dell’urbanità e del vivere, posti persi e cose morte che da sempre appassionano l’artista. Rinascenze impresse su legni, cartoni e ferrivecchi che nelle sue mani tornano alla vita, rinascono in una dimensione che da dismessa si fa iconica. Allegorie di attraversamenti metropolitani, esistenziali. Tagli della materia speculari agli sgarri dell’anima dove il colore, le carte, «si fanno energia vitale in grado di raccogliere gli stati d’animo in vibrazioni poetiche», per dirla come Alessandro Kokocinski, suo mentore e compagno di scuderia nella galleria dove è tornato a esporre dall’11 giugno nella mostra Faber. Colui che fa e interpreta, fa rivivere gli oggetti nelle opere, nella realtà che rappresenta, appunto, attraverso materiali di risulta.

Di sé dice: mi sento a mio agio nel decadente, sono attratto dal vecchio, dal fatiscente. Da ciò che cambia, passa attraverso la morte e rinasce. «Sì – rivendica – l’attrazione è quasi inconscia verso le cose che mutano nel tempo, soggette a un cambiamento strutturale e cromatico, la mutazione della materia sulla base degli agenti atmosferici piuttosto che per intervento dell’uomo. Sono attratto da situazioni decadenti e fatiscenti, dall’archeologia industriale, forse perché nasco e cresco a Portonaccio, nella periferia romana. Mi interessa il discorso del rinnovamento, della morte di tante strutture urbane che rinascono attraverso l’arte, anche per un discorso economico. Mi sono fatto amici negli sfasci, recuperando pezzi che di per sé raccontano una storia. Un conto è partire da una tela bianca e un altro da un pezzo di legno rovinato o di ferro arrugginito. Da qui parte la riflessione su quello che la civiltà industriale produce, lascia morire e abbandona nel degrado totale, anche l’umanità stessa con la solitudine, la malattia, la morte. Ecco, l’arte credo che dia l’opportunità di fotografare tutto ciò e trovare il bello, dare spazio a una nuova destinazione d’uso a questi soggetti». Così, un filo lega solitudini urbane ed esistenziali, nelle sue opere.

Figure solitarie si fondono nelle tonalità di decadenti strutture urbane, sospese in un equilibrio instabile, scrive l’amico gallerista Cristian Porretta. «La ricerca dell’equilibrio avviene sia a livello intimistico che strutturale, nella costruzione di un edificio. Il modo in cui nascono i miei lavori ripercorre questo processo: parto da una destrutturazione dell’equilibrio iniziale, ad esempio un’anta d’armadio che disequilibro distruggendo e poi ricostruisco, cercando un nuovo equilibrio attraverso l’opera. Non mi interessa la natura in quanto tale, riproporre un paesaggio già plasmato, voglio creare spunti di riflessione su quanto stiamo creando e distruggendo e potrebbe essere destinato a un uso diverso piuttosto che abbandonato. Il bilanciamento tra l’uomo, la struttura e la natura va ricercato assolutamente, non può esserci solo distruzione e sfruttamento. Ogni giorno produciamo una quantità di rifiuti e povertà e non riusciamo a trovare un equilibrio, siamo alla deriva». Equilibrio come alternanza armonica tra vuoti e pieni, l’arte come rappresentazione di puro vuoto visuale e mentale, assimilabile al vuoto taoista necessario al compimento dell’uomo come opera d’arte. «Anche qui c’è un parallelismo del fare, un’opera d’arte è data sempre da un equilibrio tra quello che viene tolto e ciò che si mette, un po’ come avviene a livello psicologico in ogni persona. Nel senso che solo partendo da una situazione di vuoto mentale possiamo essere in grado di accogliere e percepire in modo diverso quello che arriva dall’esterno e trovare un approccio armonico alla vita. In questa come nell’opera d’arte, il vuoto non è visto in senso negativo, anzi ha lo stesso peso della materia e permette di raggiungere quest’armonia di vuoto e pieno che vado cercando, anche a livello artistico. Guardo a una spiritualità che in Occidente stiamo perdendo, ma non c’è una filosofia o una religione: Yin e Yang, il Tao, verticalità e orizzontalità sono considerazioni nelle quali mi ritrovo. Gru, pali della luce, palazzi spaziano verso il cielo, mentre noi stiamo coi piedi per terra: le due cose si incrociano e le ritroviamo a livello simbolico nei lavori che faccio, ad esempio con la presenza delle antenne, un po’ dappertutto».

Gianluca Simeoni, altro critico-gallerista, lo definisce una giovane quercia cresciuta all’ombra degli ulivi contorti e secolari dei suoi maestri. Quali siano, è presto detto. «Tutti quelli che mi hanno accompagnato in questo percorso. Come mio zio Edoardo Tiribelli che mi ha trasmesso la passione. Oltre a fare il libraio era pittore e mi ha lasciato un patrimonio di conoscenza e di materiali che ancora utilizzo. Lui se n’è andato qualche anno fa e l’ho vissuto un po’ come una staffetta». Tra i maestri di vita e di pittura c’è Kokocinski che afferma: ancora oggi nel carosello dell’arte contano il talento, la conoscenza, la verità. «È così. L’arte contemporanea ci pone di fronte a delle domande, si sta perdendo il lato del fare artigiano, del conoscere la materia, il colore, la “tekné” di cui parla lui. D’altra parte serve l’intuito, la creatività, la concettualità. Non si deve perdere di vista né l’una né l’altra, a volte il mercato può imporre un’arte in cui non c’è la minima conoscenza tecnica, stento a definirla tale. Ma a livello nazionale vedo un ripensamento, stiamo tornando alla buona pittura, a un’arte di qualità. Probabilmente nel puro astrattismo il riuso dei materiali sarebbe più facile, ma resto legato una dimensione figurativa». Con uno stile che annuncia un rinnovato corso nell’abusato percorso contemporaneo, se saprà evitare ritorni al passato e scampoli d’accademia, Giacone percorre infatti una terza via che sfugge alle chimere dell’astratto senza gettarsi sui rimasticamenti del neofigurativo, tenendosi sospeso sul presente.

Ma qual è il rapporto con una città dove la modernità è di là da venire il contemporaneo resta una speranza, con l’ambiente culturale e il mercato romano? «Un po’ conflittuale, provo ad andare via da Roma per periodi più o meno lunghi, ma devo sempre tornare. Mi sento un po’ nomade, nello stile di vita tendo a uscire dall’urbanità, privilegiando un ambiente più naturale. Anche qui credo di aver trovato un minimo di equilibrio. Al mercato comincio a pensarci adesso, da un paio d’anni riesco a vivere del mio lavoro, ma ho pretese molto basse. Non busso più alle gallerie, con Spazio 120 ho trovato un’empatia di fondo che ci fa affrontare qualunque progetto con serenità. Le cose vanno molto bene, perché cercare altro?».

Qualcos’altro l’artista lo cerca invece nella scultura, dopo la pittura. «Negli ultimi lavori tendo sempre più al tridimensionale, c’è questa voglia di uscire dalla bidimensionalità della tela. Ho provato la scultura su pietra, argilla e ferro, è una ricerca sulla materia che vorrei approfondire. Il problema è il tempo, poi devi avere un posto che ti permette di farlo. Fino a poco tempo fa lavoravo sul terrazzo di casa e i rapporti col vicinato non erano dei migliori, si può immaginare. Ora lavoro nello spazio dell’associazione culturale Lubecca, quando devo concentrarmi su cose più pesanti vado nelle Marche, a Piane di Falerone in provincia di Fermo, in una casa di campagna dai miei. L’approccio con la pietra è molto forte, a parte l’impegno fisico. Spesso con la pittura parto da un’immagine, con la scultura mi lascio andare a quello che viene, tiro fuori ciò che ho dentro. Come soggetti mi sto affacciando alla figura. Quello che mi colpisce è sempre la solitudine esistenziale che caratterizza le persone in determinate condizioni di debolezza, malattia, infanzia o povertà. In questi soggetti trovo una luce particolare, è un discorso che voglio portare avanti, come quello legato alla sostenibilità ambientale». Conoscenza del vero e capacità di rappresentarlo, ecco l’etica del fare artistico. Eccolo l’uomo nuovo, secondo l’artista. «Il discorso etico è importante. Poi ti rendi conto che quello che ritrai è la spiritualità che uno ha dentro, come diceva Kandinskij. È raro, ma a volte l’opera ne sa più di chi l’ha fatta».

LA MOSTRA VISTA DAL GALLERISTA
Faber, indagine tecnica e ricerca interiore

La galleria Spazio 120 presenta la recente ricerca di Valerio Giacone: Faber. Colui che fa, interpreta e rappresenta la realtà attraverso ferro, legno, carta e altri materiali di recupero che l’artista fa rivivere modellandoli con incisioni, tagli, abrasioni, combustioni. Giacone costruisce l’opera sfruttando le proprietà della materia e sperimentando una tridimensionalità accentuata dall’alternarsi di piani sovrapposti. Strutture urbane e architetture industriali cariche di atmosfere struggenti vibrano di contrasti cromatici e descrivono recondite suggestioni, evidenziando l’idea di una società in progressiva decadenza. Dove la memoria si perde nell’oblio e il peso della solitudine umana si accompagna a un desiderio catartico di riscatto individuale e rinascita collettiva. L’artista riesce così a fondere la sua personale indagine tecnica con una intensa ricerca interiore e sociale. Fino al 20 luglio, galleria Spazio 120, via Giulia 120, Roma. Info: 0664760439; www.spazio120.it. (Cristian Porretta)