Nel segno della gratuità

Sono rimasto davvero colpito dall’articolo di Sara d’Ascenzo del 19 aprile apparso sul Corriere del Veneto che riporta una citazione di Francesco Colafemmina, che da tempo gestisce un blog su arte e fede. L’articolo recita: “L’arte sacra non è più quotata, non va più sul mercato. E quindi c’è l’interesse a riempire le chiese, o il padiglione della Santa sede, di opere che abbiano un mercato. Una dimensione assolutamente mondana, che non ha nulla a che vedere con la spiritualità. Come nel duomo di Reggio Emilia, dove Padre Andrea Dall’Asta, che è dentro la commissione ristretta che ha scelto le opere per la biennale, ha fatto sostituire l’altare e il crocifisso con opere d’arte contemporanea poi rimosse dal nuovo vescovo. Quest’arte serve a pregare o a essere più facilmente rivenduta in futuro?”.

Come risposta all’articolo, vorrei prima di tutto porre una domanda, in quanto credo che chi scrive non conosca bene il soggetto. Quando infatti si dice: “L’arte sacra non è più quotata, non va più sul mercato”, di quale arte sacra si sta parlando? Se per arte sacra si intende infatti quella pseudo arte liturgica che affolla le nostre chiese con effetti del tutto devastanti e disastrosi (e che il nostro Colafemmina promuove – sic!), questa ha un mercato davvero fiorentissimo. Non c’è certo bisogno di fare propaganda con biennali o eventi vari perché sia venduta. Consiglio a chi scrive di partecipare a qualche “fiera del sacro”, per rendersi conto della quantità di persone coinvolte e del giro d’affari che vede come acquirenti tanti ecclesiastici con tanto di portafoglio rigonfio. Colafemmina ne resterebbe estasiato (ma è impossibile che non ne sia al corrente). Vi ho partecipato alcune volte e purtroppo ho l’impressione che tanto più gli stand propongono oggetti di pessimo gusto, kitsch, vuoti e artificiali, tanto più il successo commerciale è garantito.

Quando poi si dice che ci sia l’interesse da parte degli artisti (veri, almeno riconosciuti nell’ambiente artistico, con tutte le luci e ombre che conosciamo) a riempire le chiese delle loro opere si dimentica un fatto non secondario. I veri artisti, come quelli coinvolti nella cattedrale di Reggio Emilia – penso solo a Ettore Spalletti o a Jannis Kounellis – non hanno certo bisogno né della biennale di Venezia né tantomeno di commissioni ecclesiastiche, anche delle più prestigiose, per farsi pubblicità o per vendere i loro lavori. Anzi, da parte loro ho riscontrato grande generosità e disponibilità, atteggiamenti oggi molto rari. Dove sia questa dimensione mondana sinceramente faccio fatica a riscontrarla. Quando penso al cammino personale condotto con loro sia per l’elaborazione delle opere per la cattedrale di Reggio Emilia, sia per le immagini dell’Evangeliario Ambrosiano, a partire dalla lettura delle sacre scritture e dei testi liturgici, penso proprio al contrario. Questi artisti si sono messi in gioco in prima persona nell’affrontare tematiche nuove, con un vero desiderio di comprendere, di esprimere qualcosa di significativo in relazione a quanto loro richiesto, confrontandosi con la tradizione cristiana. Atteggiamenti esemplari. Criticando questi artisti, si ha forse paura che possano in un futuro togliere il mercato a tutta quella paccottiglia da cui siamo invasi? Beh, sinceramente lo spero.

Quando poi alla fine della citazione si afferma che ho sostituito l’altare e il crocifisso della cattedrale di Reggio Emilia con opere poi rimosse dal nuovo vescovo, l’inesperienza di chi scrive raggiunge toni davvero drammatici. Inutile dire che l’unico ad avere l’autorità per iniziative simili è il vescovo, nel caso di Reggio Emilia, mons. Adriano Caprioli che ha voluto e ha portato avanti il progetto, con tutte le “paure” dell’ultimo momento. Solo il vescovo ha infatti il potere nella sua diocesi di farlo. Se poi il crocifisso di Nagasawa e la cattedra di Kounellis saranno venduti – Colafemmina si confonde qui con l’altare di Parmiggiani che non è stato toccato ed è ancora in situ – questo proprio non lo so. Anzi, in un momento in cui papa Francesco parla di povertà, vedere la cattedra di Kounellis, splendida opera di arte povera, nata da una lunga riflessione teologica (così come la croce di Nagasawa), in una grande basilica romana, e perché no, in San Pietro, sarebbe veramente il segno di un nuovo corso della chiesa di andare all’essenziale, mettendo da parte pizzi e merletti. Un ritorno a uno stile semplice. Ma proprio ciò che è sobrio appare oggi difficile a essere accolto e accettato. Perché segno di grande spiritualità.