Jacopo Mandich, Cosmogonie

Non è un Mangiafuoco, ma potrebbe esserlo. O uno squagliaferro, uno schiacciasassi, un tagliaceppi. Potete definirlo come vi pare, Jacopo Mandich, l’essenza non cambia: la sua è arte che si sporca le mani, colpisce agli occhi e parla al cuore. L’artista romano è in mostra nella galleria Varsi con Cosmogonie, una personale curata da Marta Gargiulo.

Dal suo antro ai margini dello Strike, centro sociale capitolino, lo scultore fonde metalli e fende legni. E da quest’impasto di robe, dalla sua bottega a cielo aperto, a metà tra un carrozzone dei desideri e una rimessa di robivecchi, ridà vita e forme alla materia. Di più: insuffla nelle cose, morte ancor prima d’essere consunte dal consumo sfrenato, un’anima. Dal laboratorio improvvisato, sorta di fucina alchemica, racconta le sue sculture, le creature che risorgono in un nuovo corpo, riesumato tra gli scarti. Siano Sopravviventi, giocosi alter ego della propria furia creatrice-distruttrice, della sua personale resistenza all’oggi, oppure oggetti di design destinati ad arredare le dimore di un mondo altro o ad abbellire gli spazi pubblici, le sue creazioni urlano una perizia tecnica distante dalle mode ma dentro l’oggi quanto mai.

Un impasto d’etica e filosofia che ha radici più fonde degli alberi riusati a mo’ d’arredo urbano. Senza nascondersi affatto, dichiara: «Lavoro con la materia riciclata per una ragione etica e perché è quella che mi posso permettere. Ferro, vetro, legno, pietra: ricerco l’armonia degli elementi in tutto. È una non scelta, ho trovato il mio percorso utilizzando quello che trovo: un pezzo di materia che cerco di riportare allo stato primordiale. La venatura nel legno, la crepa nella pietra, sono suggestioni nelle quali mi perdo, piene di significati». Nessun materiale si sottrae a Mandich, in un’ottica che fa del riciclo un mezzo di salvaguardia del mondo e salvezza interiore. «Mi piace rievocare sia l’energia imprigionata nell’oggetto, la storia del suo vissuto, sia la sua trasformazione, come la perdita d’identità dell’individuo nella morte e il suo ritorno nel magma del flusso-materia. Tento di non essere un peso planetario. Lavorando con i materiali riciclati ci si rende conto della massa di roba che la società butta via, costituita il più delle volte da cose ancora funzionanti. Non è solo il buco dell’ozono o l’essere travolti dai rifiuti, è proprio mondezza interiore quella che creiamo: una quantità di rifiuti spirituali frutto del vizio, dell’abuso, dell’assurdo, dell’ingiustizia. L’uso sfrenato della tecnologia fa sì che l’oggetto non finisca la sua vita quando non funziona più, ma perché si deve cambiare. Questo meccanismo mentale rappresenta la mondezza interiore che applichiamo dappertutto. Non cerchiamo più niente, o meglio anche troppe cose ma sempre più in superficie, senza mai scavare. La realtà è fatta di molte cose, ma che si perda qualsiasi stimolo d’indagine sull’esistenza è un’assurdità, dal mio punto di vista».

La sua è una ricerca che si muove su più direzioni. «Mi muovo su diversi binari, anche sul grottesco, sul caricaturale, per rappresentare l’energia degli elementi. I Sopravviventi sono una piccola riflessione ironica ispirata all’atmosfera surreale, onirica di Bosch. Poi c’è un discorso più articolato sull’interiorità umana, sulla nostra evoluzione. Le mie opere sono momenti di crescita personale con cui cerco di rappresentare anche momenti della vita. Sono l’immagine di un conflitto, dell’energia a cui non ho ancora dato un indirizzo, oltre tutto questo fremere. Sono anch’io alla ricerca di un’armonia». Un Mangiafuoco, Mandich, ma con un cuore da Mastro Ciliegia.

Nello spazio squadrato di Varsi, a due passi da Campo de’ Fiori, c’è tutto l’immaginario emerso dalla bottega dell’artista: da Unoxdue, l’imponente opera a parete intarsio di tronchi e lamine più vicina al concetto di quadro uscita dalle sue mani, al vortice di ferro e legno che troneggia al centro della sala. Tutt’attorno, pezzi vecchi e nuovi del suo fare da Mangiafuoco: dai Cheloidi agl’immersi in vitro, dai travertini incatenati agli ultimi Metavento, sculture composte da una miriade di filamenti di saldatura che danno alla figura umana una dimensionalità fuggevole, ventosa, eterea come questo tempo di passaggio. Ma quello che più inzeppa lo spazio della galleria e affascina il visitatore – numerosi, ieri, i partecipanti al vernissage – sono i suoi Sopravviventi.

La novità è che stavolta omini e donnine di ferro, ormai un classico nella produzione dell’artista, non si limitano a essere monadi con un proprio ferroso carattere, ma danno vita a un corpo sociale complesso, a tratti commovente per la fedeltà con cui s’ingarbugliano a ripercorrere tic e fattezze umane. È il caso della Città strato, stratificazione di esserini biliosi e amorevoli, dove la banda suona tra chi passeggia, e dietro alle tende c’è chi computa e chi amoreggia, chi lavora e chi osserva. O del Ponte dei sopravviventi, teatrino dove ai piani alti un solitario operaio tira la catena, gemello moderno del supereoe che l’osserva lì a fianco, mentre sotto di loro i de-costruttori continuano indefessi il proprio lavoro sociale e ai piani bassi i reietti s’afflosciano alla luce d’un lampione, e lì accanto il loro alter ego creatore firma, beffardo, la propria opera. Ma i personaggi di Mandich non si limitano a guardare o a farsi mirare, bizzosi come sono tentano la fuga – che sopravviventi sarebbero, sennò? – dialogando con l’osservatore, oltre che tra loro. Ecco allora che i trivellatori cercano d’aprirsi un varco vero nel muro della galleria, mentre altri s’affaccendano in una sfibrante catena di smontaggio. Chi tenta lo scampo e chi s’ostina con la sua croce, proprio come nel mondo reale di cui sono eco.

Fino al 20 marzo; galleria Varsi, via San Salvatore in campo 51, Roma; info: www.galleriavarsi.it

Galleria fotografica a cura di Manuela Giusto, www.manuelagiusto.com