Ritratto continuo alla Gnam

Una notte al museo per visitare gli spazi della Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea di Roma e con l’occasione assistere all’inaugurazione di Ritratto continuo mod. 3.375.020.000, la video installazione di Francesca Montinaro promossa da Ines Musumeci Greco che con il suo intuito, per prima, ha creduto nel lavoro di quest’artista romana. Ritratti video di 90 secondi ciascuno, una rappresentazione collettiva proiettata su 4 monitor, per dimostrare che le donne possono fare gruppo, che hanno coraggio e sanno sporcarsi le mani come hanno dimostrato più volte.

In occasione dell’evento Francesca ci accoglie nel suo studio nel centro di Roma per farci vivere, attraverso le sue parole, l’esperienza totalizzante di questo ritratto di gruppo al femminile. Come un fiume in piena tipico di chi è animato dall’amore e dalla passione per ciò che fa, di chi è desideroso di condividere ciò in cui crede, ci travolge piacevolmente in questo viaggio che dall’anteprima video ci accompagna alla scoperta dei circa 300 ritratti di donne raccolti dall’artista in un suo catalogo personale. «Quando ho iniziato questo progetto volevo rendere monumentale il genere femminile plurale» spiega Francesca. Un intenso intrecciarsi di vite, un intimo scambio conoscitivo è quello che l’artista propone alle donne portate a riflettere sulla propria identità nel momento in cui la frase trascritta sulle mani, messaggio da lanciare alle generazioni future, nasce da una spontanea condivisione con l’artista. L’azione poi diventa muta, lenta, dal forte impatto visivo e invita lo spettatore ad un’osservazione acuta e meditata. Seduta su una sedia la donna ci mostra le spalle, poi si gira e dona alla lettura le sue parole. «Tutte queste spalle sono delle montagne. La donna per me è un essere portato a pensare che con il proprio agire può migliorare il mondo, le donne sono fiduciose nei rapporti, nei confronti del futuro, non si arrendono mai. Dare le spalle a me, all’osservatore significa fidarsi del proprio interlocutore. Anche il mostrarsi è un altro atteggiamento femminile, l’essere disponibili ad affrontare le cose, mettersi in gioco, voler cambiare il mondo con una frase per poi ridare le spalle e cedere il proprio posto ad altre spalle, ad un’altra donna» racconta Francesca. In questo voltarsi e svelarsi allo sguardo altrui anche la sedia ha un suo valore, non solo funzionale, nell’agevolare il movimento permettendo un punto di vista a 360°, specchio di una mente aperta, ma soprattutto simbolico, nel suo essere un complesso di singoli e peculiari pezzi che si compongono tra loro per creare un organismo unico in evoluzione, come il ritratto femminile plurale di Francesca. In questo primo viaggio dell’identità 4 sono i modelli femminili scelti dall’artista, così differenti eppure appartenenti ad uno stesso genere, ad un gruppo, ad un plurale. Ci sono le spose che «rappresentano il momento romantico del matrimonio quel momento in cui ti sembra di avere le idee chiare, ma contestualmente rappresentano per molta parte del genere femminile mondiale l’unica maniera per uscire dalla famiglia di origine». Poi, proseguendo, Francesca si sofferma sulla sposa immagine dell’invito: «Lei è meravigliosa, l’ho scelta perché nei suoi occhi vedi la sua forza. È piccolissima eppure sembra gigantesca come le star di Hollywood, così minuscole eppure riempiono il video. Seduta su quella sedia era tutta muscoli, guarda come è tesa, poi si gira, ha questo sguardo immobile e sente di dover dare questo messaggio fortissimo, lo spinge, e il gesto che lei fa nel video è poderoso, ti sta dicendo Abbi cura di te, poi esce dal set e sviene».

Le spose sono un’icona forte, tanto che a volte perseguono questo obiettivo pur non volendolo realmente. Alcune sono felicissime, altre estremamente tristi perché in poco tempo realizzano di aver fatto la scelta sbagliata. «Si capisce, quindi, fino a cha punto la tradizione manipola la vita. Il mio elemento di studio principale è la manipolazione, ecco perché mi interessa la televisione che è un mezzo manipolatorio anche e soprattutto della nostra memoria». Francesca ci mostra l’immagine di un’altra sposa, in una mano ci sembra di riconoscere Aurora e il suo principe che ballano insieme e nell’altra leggiamo E vissero felici e contenti. Una psicologa che con ironia si è presentata all’artista con i personaggi della sua torta nuziale. «Questo è l’altro grande argomento che io affronto ogni giorno avendo una bambina piccola, le fiabe sono un pericolo. Con l’intelletto possiamo filtrare l’informazione, ma visivamente ciò che vediamo sono delle donne vestite come delle principesse che sono felici solo se trovano il principe azzurro». Ecco poi le suore, le altre icone di Francesca. «Per quanto mi riguarda l’intuizione è tutto, non sai bene cosa stai facendo, ma sai che quello è il luogo dove scavare. La sensibilità ti porta a fare delle scelte, quindi il voler andare e parlare di loro, contestualmente al parlare delle spose, io lo sentivo come necessità istintiva, principale e necessaria. Dopo, parlando con loro, ho capito cosa solo intuivo». Testimonianze effettive di quanto ci sia un’enorme differenza tra il guardare e il vedere, noi abituati ad uno sguardo superficiale ci convinciamo di cose che spesso la realtà dimostra infondate. «Con loro ho trovato le uniche donne felici che abbia mai conosciuto. Non solo felici, ma gioiose. E quella gioia, non è perché credono in Dio, deriva dal fatto che hanno seguito una vocazione. Io sono felice quando mi occupo del mio lavoro perché è la mia vocazione». Sulla mano di madre Roberta leggiamo: Ascolto con la mia sensibilità la mia femminilità e la mia fede per dare speranza a coloro che incontro nel mio cammino. «Con la mia femminilità, non solo con la fede – fa notare Francesca – Sensibilità e femminilità non hanno niente a che vedere con la fede, ce l’hanno con il genere femminile». Queste persone che parlano di femminilità, che scherzano tra di loro per gli abiti che hanno, per le loro divise così austere, non è certo la prima immagine che viene pensando a loro. Eppure sono queste le suore di cui Francesca parla, donne che sulle loro mani scrivono Realizzata oppure Sono diventata ostetrica per salvare la vita di molte donne e anche Teniamo pulita la nostra città, bene di tutti.

Arriviamo poi alla categoria venditrici porta a porta, a quella generazione di donne che non ha potuto studiare a sufficienza o che si è dovuta spostare dalle piccole alle grandi città, rimanendo sola in casa ad accudire i figli mentre il marito lavorava. Queste donne trovano la loro indipendenza nella vendita di prodotti porta a porta, intessendo «una maglia di connessioni sociali e innescando una rivoluzione sociale, economica e intellettuale. Sono donne che incontrandosi si sono sostenute l’un l’altra. Molte donne, ancora oggi, lavorano di nascosto perché i mariti vogliono essere gli unici ad occuparsi economicamente della famiglia. Queste donne con la loro stanchezza, con la loro fatica, con i loro piedi gonfi, hanno affrontato questa realtà già ben prima di noi, quando non c’erano tutte le possibilità che oggi ci si offrono. Queste donne si sono sporcate le mani e si sono messe a fare un doppio lavoro, le massaie e le venditrici porta a porta. Una cosa massacrante, io le chiamo le montagne, perché senti che si sono portate il peso di molte di cose». Ed infine le scultrici della parola, coloro che fanno della parola la loro vocazione e che prestano voce alle altre donne. «Le scrittrici hanno la divisa che gli diamo noi e la mia icona è Dacia Maraini che sulla sua mano scrive: Credo nelle parole e non nelle armi, dove stanno le parole non cadono le bombe. Non è solo una donna, è le donne di cui ha scritto e quelle che si riconoscono in lei. Quindi Dacia è un monumento alla donna. Con la sua presenza ha dimostrato un’attenzione al progetto, lo scrivere per lei è una vocazione, scrive di donne perché ci tiene». Francesca mostra la sua mano solo nel manifesto di Ritratto continuo, ma è una mano bianca simbolo di chi si sporca le mani ma che non vuole imporsi, per lasciare spazio al gruppo, per mostrare chi sono le donne.

Quando le abbiamo chiesto che cosa avrebbe scritto sulla sua mano, ha risposto: «Non aspettatevi troppo da me. Una frase dettata dal fatto che io lavoro in modo istintivo. Troppe sono le persone rovinate dalle aspettative che hanno verso gli altri, non investitemi di responsabilità, io sono solo un’artista. Sono un ponte tra una necessità e il trovare la chiave per esprimerla. Io sono un ponte solido, ma poi il lavoro lo dovete fare voi». Ritratto continuo è un’opera aperta, un organismo vivente che vuole continuare a crescere con l’aggiunta di altri due ritratti, quello della grazia femminile, rappresentato dalle ballerine di danza classica e quello delle scienziate. Questa mappatura femminile mondiale ha nel tempo una componente fondamentale ed intrinseca. L’aumento del numero dei ritratti non è un problema «l’osservazione dell’opera è casuale, così come gli incontri nella vita sono casuali. Un ritratto continuo del genere femminile. È questo che rende il progetto fortemente contemporaneo, nella modalità dell’incontro con il messaggio, tanto che il lavoro è pensato per stare all’esterno dei musei, posto nella piazza di una città, perché, come in tutti i gruppi sociali, è l’esterno che gratifica la tua esistenza quindi è l’osservatore che apprezzando e capendo il mio lavoro dà valore all’opera».

Due ore scorrono velocemente in compagnia di Francesca che ci cattura nel suo mondo con la sicurezza di chi sa dove vuole condurre, tanto che l’interromperla per farle domande risulta quasi superfluo. Un progetto vivo, che racchiude giorni e giorni di vite belle e brutte. In questo lavoro così affascinante, ora che ne percepisco appieno l’ampiezza, mi soffermo a pensare all’importanza della casualità nella costruzione degli eventi. Per caso sono capitata sul set di Ritratto continuo partecipando all’opera, per caso, purtroppo, ho conosciuto Francesca in un momento delicato, perdendo la profondità di questo scambio emotivo con l’artista. «A livello emotivo ero stravolta – mi spiega – ero alla fine di questi quattro giorni di performance pesantissima perché un conto è incontrare una persona e scrivere, un conto è come voglio fare io, ottenere un ritratto che catturi l’anima di quella persona». Un percorso di crescita estenuante e stimolante, un terreno fragile, un concentrato di umanità e di esperienze in tempi molto ristretti.

Fino al 5 febbraio 2014, Galleria nazionale d’arte moderna, viale delle Belle arti 131, Roma; info: www.gnam.beniculturali.it

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